Madre Maria Teresa di Gesù Cortimiglia:
una vocazione alla santità nel servizio dei poveri
Testo della relazione tenuta dal Prof. VITTORIO DE MARCO
dell’Università del Molise di Campobasso al Convegno su
Figure di santità nella Chiesa di Monreale nel Novecento
( Monreale 2/4 settembre 2003)
1. Non è facile tracciare un profilo della Madre Teresa di Gesù Cortimiglia (Corleone, 7 febbraio 1867/1° giugno 1934) se si vuole abbandonare da subito il filo biografico, cercando invece di far emergere i segmenti più significativi della sua esistenza terrena: i poveri, il fuoco d’amore per Cristo, il ruolo del padre spirituale, il rapporto con la chiesa locale, la fondazione, le attività sociali, la sua spiritualità.
Dai poveri a Cristo, da Cristo ai poveri: potrebbe essere questo slogan a sintetizzare la vita spirituale e materiale di M. Teresa. Il comandamento dell’Amore, verso Dio e il prossimo, lo fece suo fin dall’età della ragione, specialmente a partire dagli undici anni per culminare nella pienezza della nuova fondazione. In altre parole, fin dai primi anni, due forze hanno agito in lei sinergicamente: la sensibilità verso i poveri che l’ha spinta a cercare la perfezione anelando alla santità; al contempo quei forti connotati spirituali che già possedeva da fanciulla, man mano hanno avuto come sbocco naturale il servizio ai poveri. Questo servizio ai poveri di M. Teresa, nell’arco della sua vita, è da intendersi anche come servizio ai diseredati dello spirito; e da questo punto di vista fu vera “consolatrice degli afflitti”, una sorta di “madre spirituale” per svariate categorie di individui, sacerdoti compresi: un consiglio, un conforto, un aiuto materiale.
Sin da bambina imparò a cedere il passo ai poveri; così farà sempre e gli episodi sono tanti, affinando nel tempo la sua aderenza alla povertà francescana e a quella di Cristo crocifisso. Fu povera prima verso se stessa, esercitando su se stessa la “virtù” della povertà, pur non mancandole niente in casa, avendo di se sempre un basso concetto. La intese, come detto, come virtù, la sentì e la praticò come tale nel segno del vangelo, la intravide, fanciulla, adolescente, donna, come strada tra le privilegiate verso la santità, àncora di salvezza della propria anima, anche se, prima di abbracciare lo stato religioso, considerava la sua agiatezza un ostacolo alla santità. Ebbe quindi una spiccata sensibilità verso le sette opere di misericordia corporali: «Nell’esercizio della carità verso il prossimo – scrive uno dei suoi biografi - , la Serva di Dio non conosceva limiti, largheggiava coi poveri, specialmente coi più vergognosi e dimenticati o ributtanti» (Guccione). Tutti i testi, nella Positio, sottolineano questo aspetto così aggettante nella S. di Dio: «Posso affermare con piena coscienza – così la Sig.ra Giuseppa Arcara – che la carità della Serva di Dio verso il prossimo fu il perno della sua vita». Oggetto, tra l’altro, delle sue cure, erano i ricoverati di un ospizio comunale che, dalle descrizioni che se ne hanno, chiamare ospizio è anche troppo, assomigliando più ad un recinto di animali. Aiuto morale e aiuto materiale andavano di pari passo e l’aiuto morale esigeva dalla Madre maggiore attenzione, perché le miserie morali la facevano soffrire ed immedesimare più di quelle materiali. Caritas Christi urget nos! sarebbe potuto essere il motto di Madre Teresa nell’ampio spettro della sua attività caritativa, nel più aderente spirito francescano. Poteva mancare qualcosa alla sua comunità , ma mai ai poveri che la comunità curava e seguiva. Le ricoverate erano le “sue” ricoverate, madre, sorella, infermiera, amica. «Attraverso il perfetto esercizio della povertà, la Serva di Dio evidenziò il raggiungimento della piena liberazione dalle seduzioni terrene; infatti la sua scelta di vivere povera mirava a purificarsi e rendersi accetta a Dio, amato sopra ogni cosa» (Positio).
2. Dunque dai poveri a Cristo. Ma vi è anche l’altra strada: da Cristo ai poveri, più complessa, più affascinante e forse preponderante rispetto alla prima. La Cortimiglia, già da fanciulla sembra
avere fortemente segnati i connotati della santità, risultando “pazza d’amore” per Gesù fin nella prima adolescenza, facendo vita molto ritirata, lontana dai giochi e dalle spensieratezze che la fanciullezza esige; sentendo connaturato alla sua vita lo stato religioso, ancora poco chiaro in tutti i suoi contorni, ma segnato già nelle sue linee portanti. A 15 anni la consacrazione della sua verginità al Signore, un voto privato, ma mai più revocato fino allo sbocco formale dei voti perpetui diversi anni dopo e dopo non poche avversità. Questo rapporto sempre più ravvicinato con Cristo la faceva curvare sempre più sui poveri, soprattutto la faceva sentire e vivere come fosse un tizzone ardente d’amore per il Signore, come la sua indefettibile sposa, in un crescendo di gioia e dolore lancinante, volendo liberarsi anche dei più insignificanti peccati veniali, e che forse non erano nemmeno tali, ma che nella sua prospettiva, l’allontanavano dalla meta finale: essere sposa immacolata dell’agnello immacolato. Siamo, a mio parere, di fronte da una parte ad un carattere forte e deciso fin dalla prima fanciullezza, che sa chiaramente ciò che desidera raggiungere e dall’altra ad un carattere fragile che rischia di perdersi nei rivoli delle imperfezioni fisiologiche al carattere umano, ma che alla futura Madre, risultano anch’esse insopportabili e le procurano sofferenze spirituali continue, proprio per questo profondo desiderio di voler essere perfettamente pura nello spirito e nel corpo, sempre pronta alla chiamata dello Sposo, sempre dalla parte delle vergini prudenti.
Dunque, l’atteggiamento che la piccola Biagia (così si chiamava nel secolo) assume tra i 4 e i 15 anni è quello di chi vuole spianare da subito davanti a sé la strada impervia, ma di forte richiamo, della santità. Donazione di sé, rinuncia ai beni terreni, amore sconfinato verso Dio, disprezzo del mondo. Un atteggiamento, per una giovanissima adolescente, veramente eroico e già pieno di profonda consapevolezza. «Io non ambivo – scriveva nella pagine autobiografiche degli anni giovanili – le delizie del mondo: per me più non erano, eppure intorno a me era tutto ridente, un avvenire splendido e felice, era nelle mie mani il goderlo. No, più non ero per i piaceri passeggeri….; il mio voto aveva tutto ricacciato lontano; non aspiravo che a morire vicino al mio Diletto».
3. Ma quale fu l’ambiente che la formò, quali i suoi modelli e punti di riferimento esterni?: la famiglia, un libro, un religioso (p. Restivo) e la Madre Zangàra. Quella della Cortimiglia fu una famiglia profondamente religiosa, soprattutto l’esempio le venne dalla madre, ma anche lo zio sacerdote, don Vincenzo Cortimiglia, la seguì con discrezione e senza invadenza; lo stesso patrigno – il padre era morto quando lei aveva tre anni - fu per lei un valido sostegno morale e materiale. Ma la famiglia, a mio modo di vedere, non ebbe altro compito, pure importante, nella piccola e giovane Biagia, che quello di assicurare uno sfondo di fede collettiva e di timore nel Signore; ma il “fuoco” non lo accese la famiglia, era già dentro l’animo di Biagia, era una sorta di sigillo d’amore che il Signore le aveva impresso fin dai primi anni di vita; ancora bambina, ella si dedica autonomamente alla ricerca di Dio; la famiglia fu certamente ricettacolo importante e aggiunse buona legna perché questo fuoco potesse ardere meglio.
Sembra essere poi fondamentale la lettura della vita di un beato, Bernardino Fossa. «Sentì come un prepotente bisogno di imitarlo». Ella stessa ricordava: «La lettura di un libro mi convertì tutta a Gesù senza impicciarmi d’altro che dei bisogni dell’anima mia. Bruciai di desiderio di farmi santa a qualunque costo e imitare quel Santo di cui avevo letto la vita: era il beato Bernardino da Fossa» (Positio). Fu una specie di specchio per lei: di fronte alla vita di privazioni, umiltà, preghiera, dedizione totale al Signore del beato Bernardino, essa si vide come deforme, inaccettabile per il suo Sposo, peccatrice, schiacciata dalla natura. In realtà aveva già percorso, pur così giovane, un lungo tratto di affinamento spirituale, ma per lei era men che sufficiente. E gli si spalancano davanti due anni di dolori, pianti, sofferenze morali, perché si sentiva indegna dell’amore di Cristo, sballottata dal demonio, desiderosa di togliere a tutti i costi dal suo abito da sposa le più piccole venialità, le più insignificanti macchie.
Ma c’è anche un modello “vivente” che la Cortimiglia si troverà di fronte: la Madre Zangàra, fondatrice delle suore della Misericordia e della Croce. La conobbe a Corleone nel 1895 allorquando venne invitata da suo zio, don Vincenzo, perché la sua congregazione potesse prendersi cura dell’ex monastero del Ss. Salvatore, trasformato in un ricovero per vecchi. Quell’incontro rappresentò una svolta importante che sfocerà nell’ingresso (1895) della Cortimiglia nella congregazione fondata dalla Zangàra, dove vi rimarrà per circa sette anni.
«…Entrai in religione con grande gioia del mio cuore, era quello lo stato da me ambito, l’ubbidienza, la sottomissione all’altrui volontà formavano l’obbiettivo dei miei desideri, allora diceva son sicura di farmi santa. Sia benedetto il mio Dio che già volle chiudermi nel sacro recinto ove Egli e le sue spose fanno dimora».(Positio). La futura Madre, ha di fronte, per diversi anni, un modello di donna e religiosa ricca di spiritualità che riesce a trasmettere quasi naturalmente questa ricchezza alla Cortimiglia, che a sua volta facilmente l’assorbe. Due personalità complesse: la prima travagliata dalla storia interna della sua congregazione, giudicata con qualche riserva dallo stesso arcivescovo di Monreale, mons. Intreccialagli, per il suo eccessivo misticismo, l’altra non meno attratta dalle vette della perfezione e dal fuoco d’amore per il suo mistico Sposo.
È nota l’affermazione che la Zangàra fu per lei il “telefono di Dio”; e fu un rapporto quasi quotidiano fra le due Madri che si snodò per circa sette anni; non c’è dubbio che in esso affondino radici portanti della sua spiritualità e della sua vocazione alla santità. La Zangàra la volle esercitare nell’umiltà e nella mortificazione, mandandola a chiedere l’elemosina per i poveri, accolti nel Ricovero di Corleone; così come la esercitò nell’arte del comando, mandandola superiora a Salemi, a Castellammare del Golfo, a S. Caterina, Montelepre, Silbi e Carini. Quello passato con la Zangàra fu per lei un tempo di preziosa formazione; la sentiva guida esperta, Maestra, come colei che le farà pienamente comprendere la volontà di Dio predicendole la fondazione di una nuova congregazione.
In un passaggio di una sua memoria stesa per il confessore intorno al 1895, allegata alla Positio, la Madre però sembra azzerare qualsiasi modello – libri e persone – rifacendosi soltanto a Cristo: «Posso assicurare che Gesù e non i libri o altri mi diè a conoscere il bene per ben praticarlo, il male per fuggirlo e la bruttezza di esso odiabile sino a rendermi forte in mezzo a tutte le insidie che non lasciò il brutto demone di tendermi dopo quel felice stadio di felicità suprema». È vero che questo documento è senza data e non fa nessun riferimento all’incontro con la Zangàra, ma questo passo, a mio parere può essere una spia per non sopravvalutare le influenze esterne, perché aveva ormai da tempo instaurato un rapporto diretto e privilegiato col suo Sposo. Nondimeno, resta comunque la sua diretta testimonianza a confermare il ruolo importante che la Zangàra ebbe nel suo processo di arricchimento spirituale, quasi una esaltazione della sua figura e del suo ruolo, nella deposizione che fece nel 1930, diretta al processo di beatificazione della Zangàra.
Credo che uno dei consultori teologi, nel dare il suo voto sulla Positio, abbia sintetizzato bene la diversità delle due Madri nel carisma fondazionale, tale da non creare tra loro mai incomprensioni: «La Madre Zangàra voleva dedicarsi alle “opere” di carità, portando soccorso alle molteplici forme di indigenza, che pullulavano in una società ancora agricola, che si avviava, lentamente e faticosamente, lungo la strada dell’organizzazione industriale; la Madre Maria Teresa Cortimiglia voleva, invece, privilegiare l’apostolato “interiore”, venendo incontro soprattutto alle diverse forme di “indigenza dell’anima”».
Modelli non meno importanti per il suo bagaglio spirituale furono Santa Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce di cui aveva letto gli scritti «e li conosceva molto a fondo» (Positio). Ma conosceva anche Giovanni Battista Scaramelli, gesuita del Settecento, autore di due “Direttori” (Direttorio ascetico e Direttorio mistico), manuali «pieni di equilibrio e di garbo», una specie di «enciclopedia – spiega Massimo Petrocchi – alla portata anche popolare, nel senso alto e divulgativo del termine»; «testi posseduti da Biagia, che legge assiduamente per cercare di capire i doni e i carismi di cui il Signore man mano la arricchisce» (Lentini). Poche letture, almeno quelle conosciute, ma di grande spessore spirituale e personaggi da cui Teresa può attingere esempi di straordinario misticismo. Tra l’altro la centralità eucaristica e l’abbandono alla volontà di Dio, fondamentali nella spiritualità della Cortimiglia, sono caratteristiche specifiche della spiritualità alfonsiana; ma non sappiamo se possedesse testi del vescovo di Sant’Agata dei Goti.
4. Torniamo un momento al discorso dei poveri: quali poveri e in quale specifica realtà? Corleone è la prima scuola di Teresa. A fine ‘800, la cittadina non è dissimile, da un punto di vista socio-economico e culturale, da tanti altri centri della Sicilia. Quella di Corleone è la prima povertà che sollecita il cuore di suor Teresa, una sollecitazione che continuerà con l’Istituto da lei fondato, il quale a Corleone, col tempo, diventerà molto conosciuto e stimato. La comunità corleonese sarà formata all’inizio da 8 suore e circa 30 poveri, senza contare quelli che lei stessa personalmente, assisteva a domicilio. Un religioso originario di Corleone, padre Stanislao Restivo del Terz’Ordine Regolare (TOR), aveva guardato anche lui alla fine dell’800, alle necessità del suo paese natale, cercando di promuovere una fondazione di Oblate, con lo sparuto numero di ex monache clarisse del convento dell’Annunziata, «per sollievo – scriveva alla Cortimiglia – del nostro povero popolo travagliato da tante sventure e disgrazie». Tra l’altro, in quella occasione, invitava la Cortimiglia, che già si trovava nella congregazione della Zangàra, a prendere in mano la direzione di queste Oblate, nucleo della futura fondazione delle suore di Santa Chiara. Ma su questo personaggio e sulla fondazione torneremo più avanti. Da vari punti dunque le sollecitazioni riguardavano Corleone, ora lo zio, ora il suo padre spirituale (p. Restivo), ora la stessa Zangàra: la risultante saranno le sue suore di S. Chiara attive ancora oggi, «con scuole, orfanotrofi e centri di assistenza» (Positio).
5. Uno dei sigilli della sua vita fu l’obbedienza; e l’obbedienza verso i genitori non gli permise di entrare in un monastero all’età giusta, quando già senza tentennamenti e senza residui di dubbi, sentiva l’assoluta chiamata allo stato religioso. L’opposizione della famiglia fu garbata ma ferma per diversi anni. Da qui la sua autonoma promessa di verginità a 15 anni, da qui la vestizione di monaca di casa nel 1890, con l’abito delle clarisse, da qui l’attesa che sarebbe durata fino ai 28 anni prima che si chiudesse il cerchio del suo agognato sogno e della sua vocazione.
Un’altra obbedienza esercitò, accompagnata da umiltà e non poca sofferenza nel suo rapporto con la Chiesa locale. Non tutti nel clero corleonese la compresero: molti la osteggiarono apertamente, qualcuno l’appoggiò, altri lasciarono correre nell’indifferenza. Si può dire che nel rapporto col clero locale, la Cortimiglia attraversò fasi classiche di gran parte di fondatori e fondatrici: sospetti, ostilità, indifferenza, freddezza, incomprensione, poco aiuto. È il passaggio stretto della Croce e al contempo, lo si deve leggere, oggettivamente, come atteggiamento prudente o comunque di attesa della Chiesa istituzionale verso nuove forme aggregative soprattutto femminili. Erano infatti fondazioni, quelle del primo e secondo Ottocento, che per la loro conformazione – una superiora generale, un proprio capitolo, un’autonomia finanziaria – sfuggivano allo stretto controllo ecclesiastico come era avvenuto fino ad allora per le monache di clausura.
Lo stesso arcivescovo del tempo, Lancia di Brolo, alterna piccole aperture – come il concedere la professione dei voti, a chiusure – il diniego di mandare le costituzioni della nuova fondazione a Roma così come esigito dalle nuove normative di Pio X, a tolleranza e disponibilità – la concessione della chiesa di S. Caterina annessa alla casa sede della nuova fondazione, a qualche sospetto – come l’invio del visitatore. Nel complesso però appare sostanzialmente freddo e indifferente sulle sorti nel nuovo Istituto. Più sereno sarà invece il rapporto col successore Intreccialagli, col quale la Cortimiglia si mise in contatto dal 1913, allorquando già da due anni era amministratore apostolico, “sede plena”, di Monreale; ma, come è noto, bisognerà aspettare la fine del 1921, perché vengano approvate ad experimentum le costituzioni, anche perché solo quell’anno, alla morte di Lancia di Brolo, mons. Intreccialagli subentrò nella sede di Monreale. Si trattava di una sensibilità diversa rispetto al predecessore e la Cortimiglia dobbiamo supporre – ma poco sappiamo in proposito – sentì più vicino questo padre e pastore nel breve periodo del loro rapporto più diretto, morendo mons. Intreccialagli appena tre anni dopo. L’arcivescovo, apponendo la sua firma all’approvazione canonica, faceva voti «che il piccolo istituto cresca, si diffonda e produca molto bene alle anime a maggior gloria di Dio». Questo l’augurio del santo vescovo, questa l’aspirazione della santa fondatrice.
6. Ella in questa sua avventura terrena non è sola; a Roma, per diversi anni, vi è per lei una guida preziosa e provvidenziale: un religioso del TOR, p. Stanislao Restivo, nativo di Corleone, che funzionerà da consigliere, da guida spirituale, da vero e proprio mallevadore dell’opera della Cortimiglia nei suoi primi passi. Da lui arrivarono molti consigli ma anche ammonimenti; purtroppo si hanno poche lettere superstiti di p. Restivo scritte tra il 1901 e il 1904 e nessuna di quelle della Cortimiglia a lui indirizzate. Due anime “infuocate” comunque si intercettarono, ponendo come risultante un reciproco arricchimento spirituale in primo luogo e la nuova congregazione come frutto di questo incontro tra due anime innamorate soltanto di Dio e preoccupate delle estreme condizioni morali prima e materiali poi del comune paese di nascita. La Cortimiglia si lasciò modellare dalle parole e dalle idee del religioso. Fu di padre Restivo l’idea di mettere insieme le ex clarisse per farne una comunità di Oblate che dovevano interessarsi delle necessità morali e materiali dei corleonesi, da affidare alla direzione della Cortimiglia. Nelle sue poche lettere sottolinea sempre che quella fondazione era espressa volontà di Dio, e che ella, pur sentendosene incapace, doveva prenderne a tutti i costi la direzione. Vi è un certo tono imperativo nelle parole di p. Restivo, quasi a voler condizionare e legare psicologicamente la Cortimiglia a questo progetto; il suo consiglio è sempre forte e determinato sì da non lasciare dubbi in essa e nelle sue prime compagne; tra l’altro la Cortimiglia anelava fortemente ad avere una sicura guida spirituale che non era riuscita a trovare nelle file del clero corleonese.
Le lettere di p. Restivo parlano di preghiera, di ispirazioni, di volontà del Signore, di indirizzi da seguire, di piccoli consigli devozionali per capire sempre più a fondo questa volontà, ma contengono anche ammonimenti e messe in guardia. In una lettera del novembre 1901, in risposta ad una della Cortimiglia che chiedeva di essere illuminata circa alcune visioni rispondeva: «Nondimeno guardatevi dal desiderare visioni, locuzioni e simili. Dio vuole virtù, virtù sode, forti, massicce. Io temo che le vostre siano deboli e meschine. Nelle comunità, dove siete stata, siete stata amata e rispettata anche in ciò che avete avuto da patire. Ma le grandi virtù si acquistano nelle lotte diuturne, nei disprezzi e nelle umiliazioni». Era un linguaggio che andava a cadere su un terreno fertilissimo da questo punto di vista, non aspettandosi Madre Teresa, altro dal mondo che disprezzo e umiliazione. Ella si lascia modellare in tutto, anche nell’orario del riposo, così come chiede in una lettera del 1902. Siamo nell’ambito della vera e propria mistica dell’obbedienza, molto diffusa nei due secoli precedenti. Per la Cortimiglia, p. Restivo, sarà il protettore spirituale della nuova congregazione che seguirà e incoraggerà anche nei momenti più difficili fino alla sua morte avvenuta nel 1911.
7. La sua vita devozionale corre strettamente parallela a quella spirituale. Le sue devozioni: Gesù Bambino, di cui aveva una piccola statua che spesso le parlava trasformandosi in un bambino vero, la Madonna nei suoi titoli di Immacolata, Annunziata e Addolorata; e poi il S. Cuore, la pia pratica dell’Ora Santa, della Via Crucis e della meditazione sulla Passione. A modello e protettori: S. Giuseppe, S. Michele, S. Raffaele, S. Chiara e S. Teresa d’Avila. Al culmine di tutto l’Eucarestia, centro del suo “fuoco”, del suo amore sconfinato a Cristo, «polo di attrazione della sua vita» (Positio).
La fondazione della nuova congregazione è l’atto finale di tutta una serie di “segnali” cosparsi nella vita di Madre Teresa e culminati forse nell’incontro con la Zangàra che gli avrebbe predetto il suo ruolo di fondatrice di un nuovo istituto. La fondazione conclude un cammino, non è una folgorazione improvvisa, è lo sbocco naturale di una esistenza. Non è nemmeno una decisione del tutto autonoma, venendo spinta all’inizio da p. Restivo, come si è detto: una profezia da una parte, un segnale dall’altra inteso come espressa volontà del Signore danno la risultante del nuovo istituto, spingono M. Teresa al grande passo, verso cui si sentiva, per se stessa, assolutamente incapace, ma che ormai dentro di sé, dopo l’abbandono della congregazione della Zangàra, nel 1901, prende forma in modo irreversibile. La data canonica è il 19 marzo 1903, festa di S. Giuseppe: ella si ritrova nella costituenda opera con altre quattro compagne. C’è da dire che se p. Restivo pensava a delle semplici oblate con promessa, man mano la Cortimiglia si indirizzò, anche per i suggerimenti di mons. Intreccialagli, verso un istituto con consacrazione e voti. Ricordiamo un’altra importante data, quella del 1° aprile 1923 nella quale l’arcivescovo di Monreale eresse canonicamente l’istituto come Istituto delle Suore Francescane di S. Chiara.
Lo scopo specifico della nuova congregazione era l’istruzione e l’educazione morale e civile dell’infanzia e delle adolescenti, per rifare, buono il mondo attraverso loro. C’è tutta un’attività a sfondo sociale che in sé non rappresenta qualcosa di innovativo, se non fosse che queste istituzioni non erano mai troppe per aiutare schiere di indigenti: dai bambini poveri o orfani, alle fanciulle alle quali si insegnavano cucito e ricamo, da attività scolastiche, come nella casa di Palermo, alla gestione di asili infantili, il tutto condito da molta catechesi. A Partinico nel 1905 fondò un istituto Educativo Femminile. A Corleone aprì subito una scuola di lavoro e un asilo per l’infanzia. Era soprattutto l’infanzia indigente quella che la Madre prediligeva: «La Serva di Dio andava in cerca di loro, li attirava all’istituto, li seguiva, andava spesso a visitarli» (Guccione). Ma la casa di Corleone, oltre un certo numero di ragazze contava anche una dozzina di vecchi ricoverati che col tempo aumentarono di numero.
L’attività soprattutto personale della Madre non si svolgeva solo all’interno dell’Istituto; una “casa” da lei spesso visitata era quella penale: «Visitava i carcerati portando loro il pranzo nelle maggiori solennità» (Suor Gesuina Giammona). Allo scoppio della prima guerra mondiale anche Madre Teresa fu «impegnata con la sua comunità a pregare e operare assistendo i figli dei contadini e degli artigiani che, chiamati alle armi, ben presto partiranno per la guerra» (Lentini).
8. Ha scritto bene uno dei teologi nella Relatio et Vota: che sarebbe stato auspicabile sentire il parere di un perito mistico «allo scopo di mettere meglio in risalto l’eroicità della Serva di Dio». E ci troviamo di fronte ad una spiritualità molto densa e complessa; un esercizio verso la perfezione spirituale e la totale conformazione alla volontà e ai desideri del Signore che in Madre Teresa ha il suo inizio nella prima fanciullezza. Ma è un cammino molto doloroso anche perché si sentirà sempre indegna e mai del tutto purificata per aderire alla chiamata dello Sposo, sempre tentata dal demonio, sempre compresa delle sue miserie materiali, dell’ingombro del suo corpo, sempre vicina ma mai abbastanza all’afflato di Cristo, sempre chinata sulle sofferenze del Signore, sulle sue piaghe e sulla sua croce, piaghe e croce che ardentemente volle fare sue per tutta la vita. Così che i biografi e alcuni testi, oltre a sottolineare l’amore a Gesù Eucaristico parlano di visioni, di estasi, di voci, che il p. Restivo, come abbiamo visto, cerca temperare. Si parla cioè di un rapporto molto diretto col Signore, anche nel senso, spesso, di una presenza fisica accanto a lei.
Dai suoi scritti, dalle sue riflessioni, dalle sue meditazioni si capisce che il suo è sempre un totale abbandono nelle braccia di Cristo, un dolce deliquio. C’è una scultura che esprime bene, a mio parere, questa condizione della Madre: l’estasi di S. Teresa del Bernini; quello sembra essere l’atteggiamento ricorrente di suor Teresa, nascosto però agli occhi degli altri e quindi sempre valutabile in modo indiretto da un osservatore esterno.
Da una parte Gesù Eucarestia, il Cristo del trionfo e dell’amore, dall’altro Gesù Crocifisso e sofferente, il Cristo della Passione e del dolore, dell’apparente sconfitta. Sono due piani che suor Teresa intreccia continuamente: cibarsi dello Sposo e al contempo soffrire nell’anima e nel corpo per lo stesso Sposo. Sente Gesù continuamente vicino e presente, anelando fortemente che sia il suo compagno quotidiano. Scriverà all’età di 21 anni: «Quell’amabile voce [Gesù] era meco mentre lavoravo e nel silenzio ne ascoltavo le sublimi lezioni!…Un distacco assoluto si rese mio compagno, tutto sdegnai, anche la compagnia delle creature fuggivo: il silenzio era l’ambita mia felicità per udire gli insegnamenti dello sposo che a Sé come calamita mi tirava…In quelle dolcezze passai due anni: ne contavo 21».
L’anelito alla santità di Madre Teresa, non passa dalla fondazione dell’Istituto, questo viene dopo; essa arriva a quel momento della sua vita e della sua missione già ricca di spirito contemplativo, di adorazione e adesione continua al suo Sposo, di sofferenze morali vissute in alto grado, di un processo di purificazione che durava dall’età di 15 anni. E il passaggio cruciale di questo suo cammino non è tanto la promessa verginità fatta a 15 anni, ma il momento in cui si offre vittima per i peccatori, e quindi parte, scheggia, della passione e del dolore di Cristo stesso sulla Croce, la grande vittima per i peccatori. Uno stato, quello di vittima, che a lei venne richiesto, come scriveva, dallo stesso Gesù: «Quando Gesù volle che mi offrissi, una volta nella S. Messa più che prima mi costrinse. “Offriti vittima pei peccatori”. Non potei allora più resistere, capii essere volere di Dio e mi risolvetti pigliar consiglio dal confessore, promettendo a Gesù che se me lo avesse permesso l’ubbidienza, io sarei stata pronta ad offrirmi. Mi fu permesso di cuore e tutto a Lui mi offersi per la salute dei peccatori».
L’ubbidienza a Cristo passerà sempre dall’ubbidienza al confessore o al padre spirituale, non li scavalcherà mai, ma filtrerà visioni e colloqui mistici attraverso il consiglio del confessore, proprio perché dietro visioni e colloqui poteva esserci il demonio. Era cosciente che l’offrirsi vittima supponeva una sofferenza più intima e aderente a quella della Croce e alla Croce volle uniformarsi anche fisicamente, dormendo spesso su due assi a forma di croce o stendendosi a terra per ore con le braccia aperte, posizione tale da farle perdere qualche volta i sensi. La contemplazione della Passione ogni venerdì, le procurava dolori fisici e morali, in un desiderio continuo del cupio dissolvi. Ella parla di una visione dello sposo celeste che le avrebbe detto: «Sei tu, cui voglio imprimere le mie piaghe per renderti simile a me crocifisso». E che da quel momento, per circa tre mesi, sentirà una forte attrazione ad uniformarsi anche fisicamente alla posizione del Cristo crocifisso, il che le fu concesso con prudenza dal suo direttore spirituale.
La sofferenza era cercata per piacere a Cristo: «Pensavo che io stessa mi ero offerta, né me ne pentii giammai. Mi offrivo a soffrire per tutta la vita tante pene senza sollievo umano né divino, come allora mi trovavo, purché non fossi in istato di disgusto a Gesù. Mai chiesi liberazione. Sentivo ripugnanza a pregare e dire: Se è possibile passi da me questo calice. No, dicevo, voglio patire, sono vittima destinata al sacrificio, muoio nella Croce sacrificata col mio Diletto». E in un altro suo appunto torna prepotentemente sullo stesso argomento: «Sì, ho sete di patire; e non è questo il più bel contrassegno che tu dai all’anima che ami, e che può darti l’anima che ti ama non solo accettandolo ma bramando sempre patire? O Gesù, o Amore, insegnami sì a patire e ti saprò amare».
Madre Teresa è piegata totalmente sotto il fardello dei peccati dei fratelli, schiacciata dal peccato del mondo perché vittima offerta che cerca per sé e in favore degli altri sofferenza ed espiazione.
Il suo timore continuo fu quello di perdere l’amicizia, l’affetto e le attenzioni del suo Sposo, che prevalesse in lei la così detta “parte inferiore”, il «senso indivoto» per dirla proprio con lo Scaramelli: «Temevo di aver perduto Gesù, il tesoro mio, l’unico Bene cui solo aspiravo, per cui avrei sostenuto il martirio pur di non offenderlo menomamente…Questo non bastava: si aggiunse il timore che ogni tentazione fosse un consenso…sentivami in un imbarazzo da darmi morte…».
C’era ormai una chiamata assoluta già dalla prima giovinezza, un distacco totale dal mondo, questo avvenuto ancora prima, un mondo in cui, suo malgrado gli toccava vivere e dove fu per molti vera e propria consolatrice degli afflitti.
Da tutti i suoi scritti traspare amore e gioia per le attenzioni di Gesù, dolore acerbissimo per i patimenti della Croce, dolce abbandono nelle braccia dello Sposo. I brani in questione sono tanti: «Gesù è il conforto delle mie tribolazioni. Gesù è la gioia delle mie amarezze, Gesù è la vita della mia vita…Amore eterno brucia il cuor mio d’amore, consuma in esso tutto ciò che ti spiace e metti in esso quanto è gradito ai tuoi purissimi occhi…Le creature non portano al mio cuore che spine. Tu solo, o Diletto, raddolcisci e conforti il mio spirito nelle sofferenze e nelle avversità della vita…Senza di te non posso più vivere, tu sei la stessa mia vita, l’anelito di essa…La morte sarà vita! Vieni dunque, o porta per cui potrò introdurmi a contemplare da vicino il mio diletto». E in un altro: «O amore il più delizioso, perché io non posso possederti nella tua pienezza? E quando mi sarà dato di contemplarti? Io mi muoio per sì dolce desiderio; l’anima mia si strugge d’amore; l’anima mia, in tale stato, sento che si consuma o per la veemenza brucia. Irrequieta e come delirante cerca coi sospiri più infocati giungere sino a te».
La prosa e soprattutto l’atteggiamento complessivo, gli slanci mistici di Madre Teresa, ricordano modelli seicenteschi: «Vieni dunque hormai a satiarmi – scrive agli inizi di quel secolo il francescano fra Sisto de Cucchi – ad abbruciarmi, a liquefarmi, a consumarmi tutto nell’amoroso fuoco. O incendio di amore, perché non mi consumi, perché non mi distruggi, perché non mi disfaci? Come più vivere posso senz’abbruciar d’amore?». E una santa di quel secolo, Veronica Giuliani (1660-1727), per fare solo un altro esempio, scriveva: «Tutta questa notte, sono stata in una fornace di fuoco. Sentivo ansie e brame di Dio solo, del suo amore infinito», nel desiderio di essere crocifissa con Cristo.
Nulla l’avrebbe spaventata se non l’abbandono dell’amicizia e dell’affetto del Signore; tutto il resto passava in un piano infimo; ciò che per lei contava e aveva ragione di essere vissuto era questo rapporto assoluto con Gesù, in cui sembrano prevalere i dolori più che le gioie, perché la sua era una condizione di vittima: «O Gesù, o Amore, insegnami a patire e ti saprò amare. Gesù, o patire o morire, perché non mi fido più soffrire questa sete che non lascia di crescere ognor di più».
Dai 21 ai 28 anni questo suo patire per Gesù, raggiunse punte alte di spessore spirituale e mistico. Questa offerta di vittima scatenò le ire del demonio e si sentì abbandonata da Gesù: «Esaudì Gesù i miei desideri: dallo stadio di suprema felicità, di quello di una totale desolazione, aridità e tentazioni, permise fossi circondata. L’anima mia sopportava con rassegnazione ed amore, ma il timore di essere stata abbandonata per i miei peccati si fece continuo carnefice. Satana aveva avuta licenza completa; l’essere mio parea non aver mai gustato felicità; in preda alle più orrende tentazioni mi sentii abbandonata».
Sette anni di patimenti, qualche sprazzo di sereno, molto sconforto, tentazioni continue: fu il suo grande combattimento per salire la scala della perfezione, per lasciare il mondo, per entrare nel giardino dello Sposo. Ma alla fine, scriveva, «di nuovo Gesù mi gettò nel mare delle dolcezze: insomma io ero di nuovo in Paradiso!».
La contemplazione più coinvolgente era quella del Crocifisso, e in ciò si radica nella tradizione francescana per la devozione al Cristo povero e crocifisso: il venerdì era il giorno di più aspra sofferenza proprio nell’aderenza alla passione del Redentore; si attesta da vari testimoni, ogni venerdì, la presenza sulla sua fronte e per tutta la giornata di una spina sul sopracciglio destro con una punta molto acuta. La Cortimiglia si aggiunge a quella teoria di mistiche stimmatizzate o ferite nel giorno della passione del Signore. Dunque la croce e i patimenti della Croce erano la sua gloria. Scriveva: «Vieni, o Croce benedetta, che ti attendo con le braccia aperte per stringerti a somiglianza del mio Gesù, al mio seno. Che io possa in te morire consumata dalla sete dell’amore e dalla preziosità del patire. Sia ornata l’anima mia e la croce, le spine e i chiodi sono i doni che io, benché indegna, ti chiedo, o Re del mio cuore. Amor Crocifisso, la mia vita sia teco unita, non voglio godimenti, perché non si addicono alla sposa del Crocifisso. O Croce, trono glorioso, cattedra di ammaestramenti, e come per te non dovrò spasimare? Vieni, t’invito dunque».
L’offerta è totale, così come totale è l’autoannullamento; se nella vita quotidiana mostrava di saper mandare avanti un istituto con prudenza, in mezzo a non poche difficoltà, soddisfando le esigenze di tutti, guidando, consigliando, rasserenando le proprie suore, i propri poveri e tutti coloro, di ogni ceto, che a lei si rivolgevano; su un altro piano, appartenente tutto al foro interno, la sua personalità si era da tempo annullata nell’abbraccio dello Sposo e nella contemplazione della Croce, e la mia impressione è che questo piano, già precedente cronologicamente all’altro, fosse prevalente. In altre parole, più contemplativa, che religiosa nel mondo, più ritirata, più nascosta, più anelante a staccarsi del tutto dalle cose terrene, le quali tuttavia, per necessità e scelta vocazionale, doveva affrontare e “governare”. «Il soprannaturale – si legge nel voto V della Relatio et vota - , come certezza quasi sperimentale della presenza di Dio, era il clima normale, nel quale la sua anima si ritemprava dalle “dissipazioni” imposte dalle esigenze della vita quotidiana». Mentre le consorelle e tutti coloro che la praticavano la sentivano vicina e premurosa, da un altro lato e su quell’altro piano si autoschiacciava nella sua inutilità definendosi e considerandosi sempre una povera e miserabile peccatrice, inetta ad ogni cosa buona.
Madre Teresa, per anni vive dunque in questa dicotomia di stato: da una parte rapita nei piani alti della spiritualità, consumata nell’Amore divino e insaziabile nel patire, dall’altra risucchiata nella quotidianità di un Istituto da lei stessa fondato. Si potrebbero citare altri passi dove queste altezze assumono il senso della vertigine, una intimità mistica straordinaria, un continuo sfogo d’amore col suo diletto Sposo. «Amore, delizia mia, lasciami così in Te riposare, lasciami tutta in Te abbandonare: niente io bramo, solo l’Amore è il mio pascolo, il sostegno di questa mia vita. Ah, in questo Cuore si languisce, si muore e si vive!». E in un altro appunto.«Comprimi, o Gesù, il mio cuore sotto il torchio dell’Amore…». Il linguaggio è incandescente, carico di intensa passionalità, e sembra ricordare i Poemas di S. Giovanni della Croce e di S. Teresa d’Avila, che probabilmente aveva letto e possedeva nella sua biblioteca. Essere schiacciata dall’amore di Cristo era il suo più ardente desiderio, proprio per essere sempre più vicina al suo sposo. In lei vi è stata «come un ininterrotta ascensione dell’anima verso la comunione con Dio» (Positio). La morte per Teresa non sarà altro che la porta per la quale sarà introdotta «laddove potrò contemplare da vicino il mio Diletto». Madre Teresa, per dirla con un gesuita del ‘600, Alberto Rodriguez, «salì dalla meditazione del Calvario al godimento del Tabor […]; volò tanto in su ma co’ ferri ai piedi di dura penitenza e di mentali riflessioni».
Ha scritto uno dei consultori teologi nella Relatio et vota che «gli slanci mistici dei suoi scritti autobiografici dimostrano come tutta la sua vita scorresse sotto gli occhi di Dio, con l’anima protesa verso il volto di Lui. Si ha l’impressione di trovarsi dinanzi ad un’anima per la quale l’invisibile si è reso visibile, così come si legge di Mosè».
Qualcosa di questa sua vita scendeva in quello che abbiamo individuato come il piano materiale: consorelle, convittrici, altre persone, rimanevano toccate dal modo di stare in chiesa della Madre, dal modo di pregare ed estraniarsi totalmente dal resto, percepivano che ella aveva una sorta di corsia preferenziale per comunicare con la Divinità. «Questo verticalizzare le sua azioni – è detto nell’Informatio – cercando di piacere solo e sempre a Dio, comportò il verificarsi di conseguenze che rendevano particolarmente piacevole osservare Madre Teresa e trovarsi insieme a lei».
9. Non si potrebbe completare (ma “completare” è un eufemismo) questo più che sintetico profilo della spiritualità di Madre Teresa senza considerare due importanti attori: il padre spirituale e il diavolo. Cominciamo da quest’ultimo. Il diavolo esige l’aut aut: o si crede o non si crede. In tutta la vicenda della Cortimiglia, fin dalla giovane età il demonio è presente: essa lo sente vicino, lo personifica, è una potenza che la trascina nella disperazione. È una presenza aggettante, angosciante, che rende tante sue giornate un calvario, che emerge da tutti i suoi scritti ed appunti, inteso a distruggere il suo anelito alla perfezione, il suo mistico matrimonio e poi la sua fondazione. Sempre sconfitto, sempre riemergente, è l’ombra che l’accompagna dalla fanciullezza alla morte, dal momento in cui la quindicenne Biagia fa il suo voto di castità. Il demonio gli ispirava la superbia, si incuneava nel suo rapporto sempre più stretto ed intimo con Gesù, gli istillava il dubbio che certe sue decisioni, certi suoi abbandoni ed ispirazioni fossero opera sua. Quando si offrì vittima per i peccatori, convinta che quella fosse l’esplicita volontà di Gesù, «Satana – scrive – aveva avuto licenza completa; l’essere mio parea non aver mai gustato felicità; in preda alle più orrende tentazioni mi sentii abbandonata. […] Satana cresceva di giorno in giorno in audacia; arrivò a non lasciarmi più cinque minuti per respirare: ero martirizzata». Quando si considerava indegna dell’amore di Cristo sentiva più forte la pressione del demonio che le creava confusione, la minacciava, la terrorizzava. Il periodo più difficile fu tra i 21 e i 28 anni, soprattutto gli ultimi quattro allorquando il diavolo, novello Saladino, pose – ma qui inutilmente – un violento assedio alla sua anima.
Anche la nuova fondazione fu oggetto delle mire del diavolo, scatenando incomprensioni ed ostilità: le venne in soccorso p. Restivo: «Il demonio – le scriveva il 20 settembre 1901 – ha suscitato contro l’Istituto una tempesta che basterebbe per rovinarlo totalmente, mostrando di temerlo. E simili tempeste non sono nuove nelle altre fondazioni. E dobbiamo sperare che queste infine non facciano altro che meglio stabilirlo».
Sull’Istituto la sua ombra aleggiò sempre e il p. Tagliareni, teste e confessore della stessa deponendo, sottolineava tra l’altro che «non una volta sola il demonio tentò di spaventarla, anche con visioni truci, ma la Serva di Dio, invocando la SS. Trinità, riportò sempre trionfo». Si raccontavano tra le consorelle episodi di lotta quasi fisica tra la Madre e il demonio.
Una barriera alle insinuazioni del demonio fu sempre il p. spirituale pro tempore. Abbiamo accennato all’importanza che nella sua vita ebbe il p. Stanislao Restivo del TOR che la guidò passo passo nei delicati anni che precedono e seguono la nuova fondazione. Dalle lettere del religioso emerge però che anch’egli sentiva il bisogno delle preghiere e di qualche lume da parte di suor Teresa, perché ambedue anime impegnate nel cammino della santità. E tutte le ispirazioni e visioni passarono al vaglio del p. Spirituale; attraverso la volontà del p. spirituale, esercitando eroicamente la virtù dell’obbedienza, si conformò sempre alla volontà di Dio, evitando scelte autonome. Le visioni di M. Teresa, come occhio aperto sull’altro mondo, tenero attento p. Restivo, il quale però, volle in qualche modo esserne partecipe. «Voglio che nelle lettere mi mettiate qualcosa del Bambino Gesù. Oh, che davvero bruciassi di amore per Lui!». Così come le chiedeva qualche volta di intercedere per lui. Dopo la morte del p. Restivo stette per sette anni (21-28 anni), senza padre spirituale e furono per lei sette anni di lunghe sofferenze e dubbi. I biografi e i testi non ci dicono perché tanti anni senza direzione spirituale; possiamo interpretarla come una prova del Signore, un duro crogiuolo che le si offriva per una più profonda e totale purificazione, secondo quanto lei stessa comunque anelava.
10. Deponeva la teste Giuseppa Arcara: «E quando anche la salute le veniva a mancare rassegnandosi alla volontà di Dio confidava nel suo aiuto e a ciò invitava le sue suore, dicendo: “Non perdete mai la fiducia nel Signore, egli ci è sempre vicino”». La Madre Cortimiglia questa fiducia nel Signore non la perse mai, anche durante certe notti dello spirito, durante le battaglie col demonio, durante i momenti continui di ostacoli per il nuovo istituto, durante la sua continua e dolorosa purificazione. Questa fiducia nel Signore si accese fin dai primi anni di vita nel riflesso della famiglia, e fu nutrita continuamente dalle pratiche devozionali, dalla comunione quotidiana, dall’esercizio dell’umiltà, dal vivere eroicamente le virtù teologali e cardinali, nel segno della Provvidenza che non la lasciava mai sola nel sostenere e promuovere le sue opere a favore dei poveri.
Operò nel mondo, ma fu in gran parte risucchiata sul piano della contemplazione; la sua vera vocazione sembra essere più questa che l’altra; qui la trasportava prepotentemente il suo spirito, qui era il suo rifugio, in questo piano vi era l’armamentario per affinare sempre più la sua anima, vittima per i peccatori, nella contemplazione della Croce e della passione di cui si sentiva partecipe ad unguem; qui incontrava misticamente il suo Sposo, qui gli rinnovava la sua fedeltà, qui sentiva i dolori del suo nulla, qui cercava la forza per affrontare, comunque sia, il mondo. I testimoni parlano di visioni, lievitazioni, di estasi della Madre, e in quelle condizioni, per dirla con S. Teresa d’Avila, quanto deve «esser stato grande il fulgore del sole che lì risplendeva».
L’intensità del suo amore con Dio non poteva comunque non riverberarsi nel mondo a favore dei diseredati nel corpo e nello spirito, così come fece e nella congregazione della Zangàra e nella sua. Indicò alle sue consorelle questa doppia via della perfezione privilegiando nella vita della congregazione il piano spirituale. Come sottolinea un consultore teologo nel suo voto: «La Serva di Dio, seguendo l’impulso della sua vocazione all’interiorità e alla preghiera, più che insistere sulle iniziative assistenziali esterne, volle imprimere alla Congregazione l’impronta della sua personalità, trasmettendo, con l’esempio e la parola, lo spirito di preghiera, la pratica del raccoglimento, l’amore ai beni eterni». Questa riflessione ben sintetizza a mio parere la strada percorsa dalla Cortimiglia: nel mondo ma lontana dal mondo, sempre prostrata dinanzi al Tabernacolo, sempre abbracciata alla Croce, mano nella mano col suo Sposo, sprofondata nel raccoglimento per essere innalzata alle vette della contemplazione. Questo emerge dai suoi scritti e dai suoi appunti, dalla sua vita, dalle testimonianze di quanti ebbero la fortuna e il privilegio di conoscerla.